Riconosciamo oggetti anche quando ne vediamo solo una parte, come una bicicletta parzialmente nascosta da un muro quando solo la ruota sporge; il cervello dice ‘tazza’ anche se vediamo solo il manico, propone ‘faccia’ quando vediamo bocca. Il riconoscimento si basa su un confronto tra quello che vediamo e un modello dell’immagine completa che conserviamo nella memoria. Se si mostra sempre meno dell’oggetto da riconoscere, oppure si riduce la risoluzione di quanto mostrato (e quindi i dettagli si distinguono sempre meno), vi è un punto oltre il quale il riconoscimento dell’oggetto è impossibile. Quindi, vi è una quantità minima di informazione che un’immagine deve contenere perché l’oggetto a cui si riferisce venga riconosciuto, e questa quantità è grosso modo uguale per tutti. Tanto meno sono le informazioni fornite, tanto più sarà l’attenzione che poniamo per riconoscere l’oggetto. Vice versa, più informazioni fornite, meno sarà l’attenzione posta su ogni dettaglio per riconoscere l’oggetto. Poiché porre attenzione ha un costo (è faticoso, stancante ecc.), calibrare la giusta quantità di attenzione per ogni situazione vuol dire che in certi casi conviene essere ‘distratti’, per non sciupare energie, e conservarle per quei casi dove sarà necessario ‘fare più attenzione’. Di solito questa calibrazione avviene automaticamente e quindi non ci ‘sforziamo’ per capire che un cane è un cane. Se invece il nostro interesse è destato dalla possibilità che quel cane sia un cane che si è perso, e che ora pensiamo di aver riconosciuto, il livello di attenzione sale. Per non sciupare energie, il cervello umano tende alla distrazione, ma se vi è ‘interesse’ subentra attenzione. Le frasi che vengono spesso rivolte a bambini e ragazzi: “Non fai attenzione!”, “Stai attento!”, “Sei stato disattento!” ecc. sono spesso ammissioni che non siamo abbastanza ‘interessanti’ da invertire un processo fisiologico di conservazione dell’energia.
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